Villa Longo
L’eremo di Don Giovanni.
Il Don era uomo d’ombra. Non che fosse umbratile. Tutt’altro! Le beghine come i giovani chierichetti lo amavano per la sua gioviale disponibilità e quell’ironia franca che non risparmiava nessuno, a cominciare da lui. Se non fosse stato per la tunica e per il vederlo sull’altare la domenica si sarebbe detto fosse un austero signorotto di campagna dedito a far di conto su decime e gabelle. Si diceva che la sua dimora proteggesse i frutti di una campagna florida e generosa in botti di rovere, in dispense munifiche, in una maestosa cucina di pietra e piastrelle. Don Giovanni portava ombre dentro e tutto intorno a lui pareva come sottoesposto, per dirla col linguaggio nostro più caro. Conservava nello sguardo un ché di ispettivo, come di chi scruta il mondo da una fessura o attraverso l’abbaglio del sole. Il volto perennemente segnato da un taglio delle labbra ch’era l’annuncio di un sorriso beffardo che poco s’addiceva ad un talare. Era in realtà il risultato di uno scetticismo. Non era uomo di certezze, sempre troppo attento alle insidie nascoste nelle pieghe delle parole che chiudono, presto si rese inviso ai prelati della diocesi stanchi di tollerare cotanta perplessità in un rappresentante della fede.
Così emersero le ombre di Don Giovanni quando entrammo nella sua dimora, centotrentasette anni dopo che la sua ultima ombra fosse dissipata. La grande casa pareva immersa in un’ombra essenziale, una coltre protettiva che induce alla riflessione, che apre dubbi, e l’abbandono non c’entra nulla. Cento anni fa quella casa ha fatto le stesse domande, protetto le stesse vacillazioni di una coscienza troppo razionale. Forse. Don Giovanni cercava nelle ombre le risposte ad una vocazione forse indotta, ad un dogma mai completamente digerito, una fede troppo orizzontale. Macerato da dubbi che facevano da scudo ai raggi di sole del Sacramento, nascosto o protetto dagli angoli oscuri di una casa fatta a immagine del suo tormento, Don Giovanni nonostante tutto portava sin sulla pelle quanto “ripugnante fosse allo spirito accettare la propria esistenza dalle mani della sorte, rassegnandosi a che sia null’altro che il prodotto caduco di circostanze alle quali nessun dio presiede”. Avrebbe voluto abbandonarsi tra le braccia del Credo. Fondere ogni sua incertezza nel Sangue di quel Cristo che celebrava nella confusione dei dubbi. Ma quell’ostia ancora non riusciva a vederla come il corpo di un Dio trasfigurato. Per lui era e restava come metafora di una vendetta di uomini ignoranti ed invidiosi desiderosi solo di crocifiggere, con Cristo, ogni diversità.
Le stanze di quella casa sono ancora oggi percosse dalle soffocate urla di chi annaspa per non annegare. Provate a tendere l’orecchio mentre camminate in punta di piedi. Aguzzate la vista negli angoli bui. Se occorre stressate gli ISO oltre il possibile. Quando svilupperete le foto c’è caso che possiate rivelare in qualche angolo la figura di Don Giovanni che vi osserva silente. Che vi pone domande e beffardo vi insinua il dubbio che abbiate sbagliato strada, che occorra correggere il tiro. Ricordo di essermi attardato in un tinello, attratto da un bagliore improvviso, puntando la reflex contro un muro nero. Quando ho sviluppato la foto ho faticato non poco ma dal fondo del nero è apparso qualcosa come un calendario, un quadretto, un’icona appesa al di sopra di una madia impolverata. Era una frase vergata ad antico inchiostro che il tempo e il vetro avevano conservato perché io leggessi: “Se solo avessimo il coraggio di fare la posta alle ombre, di cogliere il suono leggerissimo rivolto soltanto a noi.”
C’è qualcosa di più forte della morte ed è la presenza degli assenti nella memoria dei vivi
Valèrie Perrin
Autori: Valeria – Antonio – Marco – Mimmo