Un altro sito Urbex

Antonio

Scoviamo l’essenza delle cose.

Perché un altro sito urbex? Forse perché non ne bastano mai. Forse perché non abbiamo ancora esaurito la spinta emozionale, l’enfasi della novità. O forse stanno maturando i tempi per abbandonare questa fantastica esperienza. Diceva il grande Ungaretti che la letteratura è la morte della letteratura. Ecco allora il paradosso racchiuso nel senso stesso di questo sito. L’urbex è la morte dell’esplorazione urbana e noi dobbiamo intervenire per salvare il salvabile. Adesso che questa pratica è totalmente sdoganata, fino quasi ad essere diventata una moda, ecco che il rischio di doverne celebrare il funerale è diventato davvero troppo alto per assistere inermi allo sfacelo di un patrimonio emozionale prima ancora che materiale. Vero è che, il momento stesso in cui si avverte la necessità di dare un nome, mettere un’etichetta per spiegare al mondo un fenomeno, un evento sociale e culturale, se ne decreta il passaggio ad altra forma. Come un gas che si solidifica. Come ghiaccio che torna acqua, l’aver appioppato all’esplorazione urbana un (a me fastidioso) acronimo, peraltro anglofono, ne ha fatto perdere gran parte del fascino. Il prossimo stadio sarà la gita turistica? Vedo già schiere di signor Rossi e consorti, col seguito di marmocchi annoiati e vocianti, intruppati ad arrancare tra il guano dietro una guida improvvisata, all’interno di un capannone industriale abbandonato. Una domenica urbex col cellulare da riempire di immagini sfocate, tutte uguali, e la fretta di uscire da un ospedale in disuso per sedersi al tavolo di una trattoria di paese. Occorre porre rimedio! E quale miglior cosa se non fare ordine, mettere le cose a posto. Fare un sito, appunto! Come il pensiero che si corrompe nel momento in cui viene verbalizzato, così l’esplorazione urbana diventa urbex per farsi “capire” da tutti, da troppi forse. Ma procediamo con ordine. Sarebbe stupido credere che la diffusione di un fenomeno dapprima ristretto alla pratica di pochi sia cosa negativa. Sarebbe negare la crescita culturale e con essa il progresso stesso, forse la scienza tutta. Del resto, ogni cosa sul pianeta subisce l’incidenza del suo proprio ciclo vitale e, fosse solo per l’evoluzione fisica e storica, di un organismo come di un fenomeno culturale, quelle realtà sono destinate a cambiare, evolversi, paradossalmente a degradarsi in concetti di uso comune. Scendere dalla torre della cripticità tecnica a livello della piazza. La grande fortuna del genere umano sta nella sua capacità di andare oltre. Ad ogni conquista scientifica, culturale, sociale, economica e via dicendo che l’uomo ha diffuso sul pianeta, facendone patrimonio, ha sempre contrapposto la ricerca di nuovi obbiettivi. Proviamo a farlo con l’esplorazione urbana.

Marco

Le origini dell’esplorazione urbana vengono fatte “…risalire al 3 novembre 1793, quando un leggendario “esploratore” delle Catacombe di Parigi, tale Philibert Aspairt, divenne celebre per la sua morte prematura in quella vasta rete di gallerie sotterranee in cui si era smarrito.”…così parlò Wikipedia.

Forse non ce ne rendiamo conto ma, molti di noi hanno cominciato a fare urbex da adolescenti. Io ho iniziato che avevo dieci anni. Nel 1965 eravamo da poco arrivati in città, migrati da un paesino della Daunia dove le condizioni di allora ci imposero un regime di vita quasi monastico. L’arrivo nella tentacolare metropoli, all’epoca Bari contava già più di 350.000 anime, sancì una svolta epocale oltre che sociale. Abitammo, come molti “migranti” dell’epoca, quella periferia urbana dove la modernità – magistralmente cantata da Celentano – stava erodendo la campagna inglobandone flora, fauna e soprattutto architetture. Masserie, grotte, camminamenti, acciottolati, all’impressionante velocità della diffusione del benessere economico di quegli anni, presto si ritrovarono inglobati in quartieri residenziali, circondati da condomini infestati di adolescenti frenetici, figli del boom e della dilagante cultura fumettistica del momento. Menti già ben disposte a farsi fascinare da giungle impenetrabili, Zanne Bianche, balene diafane e bellicosi ragazzotti in quella via dal nome strano, si affacciavano ora ad una globalizzazione antesignana, lasciandosi sedurre da nuovi eroi provenienti d’oltre oceano. Muscoli scolpiti, tute aderenti e colorate coi mantelli svolazzanti. Storie improponibili studiate per alimentare un immaginario cui aggrapparsi nel torpore di un provincialismo tutto nuovo, tutto nostro. Occorrevano gli scenari. La gente che era scappata dalla campagna invasa dai mattoni ci fece regalo di ogni sorta di antro abbandonato. Dovevamo solo arrampicarci. Scavalcare. Esplorare. Avevamo solo dieci anni e non lo sapevamo di essere già urbexer.

Valeria

Col passare degli anni la passione non è scemata. Anzi. Un fenomeno strano e pruriginoso subentrò a spingerci verso dimensioni sempre nuove dell’esplorazione urbana. In maniera direttamente proporzionale allo sviluppo della libido, questi posti divennero presto ricettacolo di riviste e fumetti con i quali ragazzi di qualche anno più grandi si sollazzavano dandosi convegno lontano da occhi indiscreti. In mancanza di internet e di una certa libertà di costumi, l’esuberanza ormonale cercava sfogo tra le pieghe dei riti delle prove di coraggio. Erano gli anni della rivoluzione sessuale, quella che doveva decretare una spinta egualitaria tra i generi e che l’industria della pornografia stava invece sfruttando per sdoganare tette e culi, per arrivare a YouPorn passando dal catalogo Vestro e da Mediaset. Al piacere del brivido di girare per le stanze abbandonate di masserie e casolari si aggiungeva ora un rinnovato stimolo, antico come l’uomo ma sempre nuovo come ogni maschietto dell’epoca sperimentava. E forse non solo maschietto. Si insinuò, parimenti, una versione dell’urbex che non avremmo mai codificato, manco in epoche contemporanee, e che forse meriterebbe d’essere maggiormente indagata. Alludo ad un certo legame che non è difficile adombrare tra la morte, grande frequentatrice di quei posti, e l’amore inteso nel suo aspetto più fisico. Eros e Tanatos appunto. Con buona pace di quel famoso Ceco, signore austero dal pizzetto inquietante come il suo sguardo e le sue teorie, non occorre scomodare intricate interpretazioni psicoanalitiche per scovare nei recessi di tale relazione, i prodromi di un mal celato piacere. Amore e Morte, quale fondamentale propellente per scaricare adrenalina. Quale miscela ottimale per lanciarsi alla scoperta del mondo.

Mimmo

Qualche anno dopo l’ubex si è spostata sull’asfalto delle strade dove a botta di passaggi (si chiamava autostop in quegli anni) allargammo gli orizzonti dell’esplorazione al vasto continente che ci ospita. L’irresistibile richiamo dell’asfalto e l’ipnotico cadenzare delle rotaie su infinite parallele di ferro, ci portarono a varcare confini col cipiglio dei conquistatori: un romanticismo che Schengen avrebbe distrutto. Un fascino, quello del passaggio delle dogane, che è rimasto nelle nostre menti come autentico rito di passaggio, come il cambiare moneta al cambiare della lingua. Come l’incontrarsi a migliaia di chilometri senza bisogno di whatsapp o messenger. Furono anni di pausa per l’esplorazione dei posti abbandonati perché la ricerca si era spostata dentro di noi. Eravamo diventati esploratori di noi stessi e tutto ruotava attorno alla ricerca di un dio, qualunque fosse, come disse Jack Kerouak a chi gli chiedeva cosa cercassero quelli della sua generazione, gli inquieti della Beat Generation che di poco ci avevano preceduto: “Dio! Cerchiamo il volto di Dio!”

Antonio

Ma gli anni settanta stavano per finire e nel mondo stava per esplodere un’altra rivoluzione, quella dell’elettronica. Fare foto, che da sempre è stata la nostra grande passione assieme alla musica ed i viaggi, era cosa assai costosa per squattrinati sempre a caccia di denaro come noi. Gli scatti andavano centellinati e a nessuno veniva in mente di portarsi dietro una fotocamera se doveva scavalcare muri, infrattarsi in grotte o dormire per strada dove la notte ci coglieva. Con l’avvento di internet scoprimmo un sito dal nome inequivocabile: “Abandoned Places”. Ora quel sito non esiste più e i curatori ne hanno tratto un libro che porta come sottotitolo “60 storie di posti dove il tempo si è fermato”. Le foto di quel sito erano di una bellezza agghiacciante. Posti sperduti negli angoli più reconditi del pianeta. Perché non farlo anche io mi dissi sognando analoghe trasferte. Cominciai con ciò che avevo a portata di mano: le masserie di cui la nostra campagna è piena. E la prima fu un enorme casolare sulla murgia dove l’occhio e la lente si posarono niente meno che su di un areoplano. In uno stanzone carico di guano e polvere chi aveva abbandonato quel posto aveva lasciato incompiuto un aliante col quale forse avrebbe voluto partire per esplorazioni ben più importanti che la mia. Ci montai su una storia fantasiosa e mi tornò a galla l’adrenalina sopita dagli anni della gioventù. Ero diventato grande abbastanza per riflettere sul senso di ciò che facevo e, penalizzando non poco l’incoscienza adolescenziale che fu madre di tante scoperte, principiai un’abitudine che non mi ha mai più abbandonato. Erano arrivate due figlie e l’agiatezza di un lavoro sicuro. Stavano arrivando i cinquantanni e con loro i bilanci. Restavano le fughe nei posti abbandonati.

Marco

Fu la folgorazione di un satori improvviso. Un giorno, secondo le più collaudate regole della causalità, ecco arrivare due ragazzotti affamati di novità e nuovi stimoli fotografici. “Usciamo insieme?”. D’un tratto mi sono reso conto che l‘andare in giro per luoghi dove il tempo si è fermato era diventata cosa sputtanata assai. Il sonno dell’incoscienza aveva fatto velo e non m’ero accorto d’essere rimasto indietro. Gruppi Facebook e siti urbex come se piovesse. Una babele di foto a volte caoticamente distribuite in uno spettro tra l’inguardabile e il capolavoro. E libri! Tanti libri! Autori la cui invidiabile temerarietà ci ha già regalato decaloghi, regole, teorie raffinatissime cariche di assolutismi agghiaccianti quanto ineludibili, pena l’allontanamento dal cerchio magico degli adepti. Controversi filmati dimostrativi (“tutorial” si chiamano, e mi pare di vedere trasecolare perfino Alberto Manzi) ci illustrano perfino, con larghezza di mezzi tecnici e costruzioni sintattiche e cadenze da disastro post atomico, come vestirci e cosa mettere nello zaino assieme all’ultimo modello di drone. “Caro hai preso la lampadina led a fluorescenza con lente grandangolare? Dovessi entrare in qualche posto buio e torni a casa con i leggins di neoprene elasticizzato termico strappati!”. Siamo arrivati dove era inevitabile andare?

E’ un bene? E’ un male? Non lo so però ribalto la domanda a chi sta leggendo queste righe, se qualcuno è riuscito ad arrivare sino qui! Fate urbex? Perché lo fate? Come lo fate e con chi? Siete esploratori solitari o vivete questa cosa in gruppo e magari vi siete fatti la maglietta e il logo? Fotografate per ispirazione o per documentazione? Col cellulare o con la reflex? Vi informate sulla storia del luogo che visitate o preferite una ignara immersione nelle incognite del passato? No! Non è che mi è venuta foga di sondaggi! E’ che forse sono maturi i tempi per fare ordine nel caos. E’ che mi sono messo a fantasticare di un grande incontro nazionale. Una sorta di “stati generali” da mettere insieme, tutti attorno ad un tavolo, le decine di gruppi e di singoli esploratori che stanno facendo di questa menata un’arte. Mi pare di vedere sorgere una nuova stagione dell’esplorazione urbana. Un poliedrico approccio che riflette il caleidoscopico mondo che lo sottintende. Il futuro dell’urbex forse sta proprio nella varietà delle sue motivazioni: denuncia, riuso, espressione artistica, palestra di ardimento, qualunque sia il perché di questa pratica diamoci uno statuto e isoliamo i violenti, i vandali, i satanisti, i ladri, e soprattutto gli aridi di spirito.

Valeria

Ho come l’impressione che la sfida che ci attende sia una specie di missione, quella di riportare il tempo alla sua funzione primordiale, che è quella di annullare l’entropia. Il tempo è una variabile circolare e il passato è un futuro presente. Il flusso della vita si eterna nel permanere del ricordo e quando il ricordo si fa carne ecco che ci scopriamo immortali. Abbiamo tanto da imparare da questa banale regola. Abbiamo tanto da imparare nei posti abbandonati. La salvezza stessa del pianeta sta nell’ascolto di chi da queste parti c’è già stato. Ce lo hanno sempre detto ma occorre ricordarselo sempre e sedersi sempre più spesso al cospetto di questi saggi monoliti ed ascoltare i loro dialoghi muti. Abbandonarsi ad un posto abbandonato, diventarne parte, vuol dire ridare ossigeno alla vita e scoprire che la morte non esiste. Eric Fromm ha detto: “Vivere significa nascere ad ogni istante. La morte si produce quando si cessa di nascere”. La morte è un errore ed il vero senso della vita è la nascita. E la nascita si da ogni momento se è vero ciò che dice Margherite Yourcenar che “…il vero luogo natio è quello dove la prima volta si posa un sguardo consapevole su noi stessi”, quando si inizia a con-prendere la realtà che ci circonda. Se è vero, com’è vero, quanto perentorio dice GG Marquez: “La morte si sconta vivendo”. Nei luoghi dell’abbandono si avverte prepotente la presenza della morte in un passato che vive nelle sensazioni che provoca. E non solo di memoria si parla. Si parla di vibrazioni, di suggestioni. A volte persino di odori, di (con)tatto. Nel film “Fratello di un altro Pianeta” (1984) l’alieno arrivato sulla terra tocca le pareti dei luoghi rivivendo la vita che lì era passata. Sente le voci di coloro che vi avevano abitato. Ne “La casa sull’estuario” (romanzo del 1969 di Daphne du Maurier) il protagonista sperimenta una droga che lo porta nel passato col corpo e con la mente maturando un’esperienza che lo porta fino ad innamorarsi perdutamente di una dama del quattordicesimo secolo. Ecco cosa c’è in questi posti che ci affascina. La sensazione di recuperare vita. Il piacere, un poco perverso a dirla tutta, di ridare ossigeno a persone, cose, storie ormai inghiottite dal tempo eppur ancora presenti nella memoria e nel monito. Sarà pure un gioco della fantasia ma, diciamocela tutta, non è forse la fantasia l’unico strumento che abbiamo per essere dio? LA FANTASIA E’ CIO’ CHE RENDE SOPPORTABILE L ‘IMPOSSIBILITA’ DI ESSERE DIO. Il potere della fantasia soverchia qualsiasi limitazione venga posta all’essere umano. La fantasia è un chiavistello che all’occorrenza può diventare un piede di porco. Una dinamite perfino. Può scardinare qualsiasi barriera e condurci in territori che non potremmo raggiungere altrimenti.

Mimmo

L’esplorazione urbana diventa il luogo della fantasia. Esplorando il pianeta dell’abbandono materializziamo l’essenza stessa del sogno fantastico. Attraversiamo il tempo ed entriamo in una dimensione dove tutto è possibile. L’immaginazione diventa materia e con essa costruiamo una realtà che essa stessa è materia. Non un mondo parallelo, come qualcuno ha detto, ma Il Mondo. Se è pur vero che l’eccesso porta alla follia, è altrettanto vero che solo regolari, sistematiche, strutturate incursioni nel mondo della fantasia sono l’unica salvezza. Da Lewis Carroll a Ken Kesey, da Aldous Huxley a Timothy Leary la fantasia risulta il motore della vita. A patto che si ritorni all’ovile, ovviamente. Occorre pur sempre fare i conti con Maslow e la sua “catena dei bisogni”.

La recente scoperta nella foresta pluviale amazzonica di un nuovo sito preistorico riccamente adorno di immagini affrescate, ha spostato ancora più in dietro le lancette della nascita dell’uomo artista. La cosa dimostra, se mai ce ne fosse ancora bisogno, la necessità dell’uomo di tramandarsi l’inespresso e l’inesprimibile. Non è solo necessità di codificare per comunicare. E’ la necessità di dare corpo all’immaginazione. All’alba dell’umanità un essere che aveva appena scoperto come sopravvivere alla forza della natura, già sentiva il bisogno di esprimersi secondo una forma di comunicazione che solo miloni di anni dopo sarebbe stata definita arte, letteratura. Cultura.

La ricerca di luoghi abbandonati ha mutato e si è mutata in qualcosa di diverso da sé. L’esplosione, quasi una moda, di un fenomeno solo qualche anno fa sconosciuto ai più ha portato questa forma di arte nell’alveo della volgarità, nel senso letterale del suo aulico termine. Com’è giusto che sia, forse, perché non v’è migliore celebrazione della bellezza se non la sua più vasta diffusione. Ora spetta ai contemporanei l’arduo compito di glorificare questa bellezza nelle forme di arte duratura.

Antonio

Questa è la seconda missione che si pone al genere umano: diffondere bellezza. Spacciamo bellezza più che possiamo. Riempiamoci gli occhi di ogni stupore e infettiamoci a vicenda…Meravigliamoci del creato di un Dio quale che sia e dell’opera su attraverso noi. E’ questo l’unico antidoto, vaccino infallibile contro ogni cancro, sia del corpo che dell’anima. Bando alla pigrizia d’accettare bellezze prefabbricate. Apriamo le porte della nostra percezione e sveliamo al mondo la meraviglia di un rudere abbandonato come di un cielo stellato. Scoviamo l’essenza delle cose. Diamo animo agli oggetti come agli sconosciuti in fila alla cassa del supermercato. Siamo una delle più pregevoli espressioni di bellezza dell’universo. Non sprechiamo l’occasione.

Autore: Antonio

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