“La terra a chi Lavora”

Mimmo

Masseria Guarlamanna e la Riforma Agraria


All’indomani della seconda guerra mondiale l’Italia tutta si trovò nella necessità di affrontare la grave situazione economica e strutturale che reclamava un’urgente soluzione. La necessità di ricostruire, l’inflazione che avanzava vertiginosamente, la strozzatura della bilancia dei pagamenti, il deficit e la mancanza di valuta, erano problemi da risolversi in tempi immediati. La disoccupazione portava con sé l’esigenza di rilanciare lo sviluppo industriale e del settore agricolo, colpiti tra l’altro in modo particolarmente grave dalle distruzioni belliche e dai numerosi bombardamenti subiti. La Puglia non è da meno con le sue prospettive economiche scoraggianti. Il governo di allora incoraggiato dalle promesse degli aiuti americani, comprese che era necessaria un’azione incisiva ed attiva per assicurarsi il rifornimento di tutto quanto potesse servire all’incremento dell’occupazione. Il problema della ricostruzione fu affrontato immediatamente. L’inizio di una sua vera e propria concretizzazione di un progetto di risanamento si ebbe fin dall’agosto del ’44, quando gli Stati Uniti misero a disposizione dell’Italia una somma da utilizzare per acquisti di materie prime e di materiali occorrenti per la ripresa produttiva e la riattivazione del settore industriale ed agricolo: il piano Marshall.

Il piano prevedeva interventi economici e fu ideato da George Marshall che, all’epoca, era segretario di Stato degli Stati Uniti d’America, al fianco del presidente Harry Truman, sotto il vero nome di “European Recovery Program”. Concepito per la ripresa europea, dopo la devastazione portata nel vecchio continente dal secondo conflitto mondiale, prevedeva aiuti economici, per un’entità di 14 miliardi di dollari. Marshall era convinto che senza un serio piano di sostegno la maggior parte dei paesi europei avrebbe conosciuto un nuovo aggravarsi della propria economia che, a sua volta, avrebbe provocato un ulteriore peggioramento della situazione politica e sociale. Situazioni queste che, in passato, avevano portato all’emergere di quei nazionalismi colpevoli di aver scatenato il conflitto bellico. L’Italia è stato il paese europeo più aiutato, con 1.204 milioni di dollari. Ed una parte di quei fondi arrivò anche al Meridione, nella nostra Puglia, a Bari e alla sua provincia che avevano subito pesanti bombardamenti. Uno degli effetti dell’utilizzo di quei soldi, fu la Riforma Agraria del 1950, finanziata anche con i dollari arrivati dagli USA, che furono destinati ad incrementare e migliorare l’assistenza sanitaria, l’istruzione, in un paese ad alto tasso di analfabetismo, e la costruzione di nuovi alloggi, edifici ed infrastrutture, tutto questo per evitare nuove tentazioni autarchiche che erano state tipiche del fascismo.
Allora accadde che nell’entroterra della provincia barese e soprattutto nella Murgia venne attuato uno dei progetti di ricostruzione nel Mezzogiorno. Proposto dai tecnici dell’Iri (Istituto per la Ricostruzione Industriale), della Banca d’Italia e della Svimez, prometteva di potenziare le infrastrutture e, di conseguenza, contrastare la diffusa disoccupazione. Fu dato il via alla costruzione di case da affidare ai lavoratori della terra, tutte uguali in modo da non creare differenze, disparità e soprattutto “gelosie” fra gli abitanti. Queste tipologie abitative (in gran parte mai terminate, quasi tutte oggi abbandonate) presenti nel paesaggio murgiano sono le case coloniche della Riforma. Nell’immediato dopo guerra infatti una forte mobilitazione delle masse agricole costrinse l’allora governo De Gasperi a varare la succitata “Riforma Agraria” che avrebbe dovuto, specie nel Mezzogiorno, espropriare le terre ai latifondisti per parcellizzarle e dividerle tra i contadini, dando una risposta al motto stesso della sollevazione popolare che urlava “LA TERRA A CHI LA LAVORA”. Ogni podere avrebbe dovuto preliminarmente essere sottoposto ad un processo di trasformazione fondiaria, per la realizzazione degli ordinamenti produttivi preventivati per ogni zona agraria. In seguito l’appezzamento di terra avrebbe dovuto essere dotato di un’abitazione (la casa colonica appunto) con tutti i servizi necessari (pollaio, pozzo, cisterna, stalla, etc) e corredato di tutti gli attrezzi agricoli necessari al lavoro dei campi. Un sistema viario avrebbe collegato tutte queste “casette sparse” a dei “Centri di Servizio”. Fu allora che intorno alla vecchia Masseria Guarlamanna nacque un piccolo borgo formato da nove casette coloniche. La scelta del territorio dove costruire ricadde su questa località (detta anche San Giuseppe) per la presenza di avvallamenti, dove il calcare era ricoperto da sabbie e argille, perché queste generavano una naturale forma di impermeabilizzazione del suolo, che impediva l’infiltrazione delle acque nel sottosuolo. In questi luoghi in presenza di precipitazioni si generavano laghetti carsici superficiali dalla vita variabile a seconda dell’acqua accumulata, bene molto prezioso per l’attività agricola e pastorale del luogo.

La masseria Guarlamanna e le sue casette si trovano a circa 1 Km dal Pulicchio, una depressione carsica simile al Pulo di Altamura, ma di dimensioni più ridotte, nel territorio di Gravina. La masseria, pur essendo destinata solo al ricovero del bestiame, presenta caratteristiche particolari: in primo luogo vi è una costruzione a due piani, inusuale per i fabbricati di questo tipo, abbastanza rifinita anche all’interno ed in più vi è uno zoccolo bugnato che corre lungo i due corpi di fabbrica che formano il cortile di ingresso dello jazzo. Molto probabilmente gli ambienti al piano superiore costituivano l’abitazione del massaro delle pecore oppure di un piccolo proprietario. Le stanze al piano terra del corpo principale e quelli del fabbricato basso, posto perpendicolarmente al primo, erano invece le dimore per gli altri lavoratori dell’azienda. Sul retro del corpo principale vi sono delle costruzioni basse. Quella più grande era divisa in due ambienti: il casone e il casolare. Nel primo veniva preparato il formaggio, conservato poi nel secondo ambiente, più fresco. L’altra costruzione è anch’essa divisa in due parti: nella prima alloggiavano i pastoricchi, ragazzi di 8-9 anni che avevano il compito di fare la guardia al gregge durante la notte; l’altro ambiente era il pagliaro, ossia il luogo ove si conservava la paglia per il bestiame. Purtroppo la copertura di questo corpo, fatta con travi in legno e tegole è crollata.
La Masseria con le case coloniche formava un vero e proprio Borgo dove, ci piace immaginare, la vita scorreva con ritmi serrati e comandati dal sole e il susseguirsi delle stagioni, piena di gente semplice e felice per il fermento della ricostruzione e dell’atroce guerra ormai alle spalle. Purtroppo tutto questo durò poco, le sirene di una modernità siderurgica stavano abbattendo a colpi di maglio anche le più granitiche convinzioni utopiche legate alla campagna. Il borgo iniziava a spopolarsi per migrare nelle città che offrivano il posto fisso nelle fabbriche, negli uffici della rinata burocrazia statale, nel dedalo tutto levantino del commercio. La campagna era il luogo della sofferenza, della lentezza, dove il benessere si confronta con valori differenti da quelli cittadini. Guarlamanna è “morta” spinta nel baratro dagli stessi che ne avevano alimentato il sogno. Ad oggi il borghetto è completamente abbandonato e come scriveva Ungaretti nel San Martino del Carso “di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro, di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto, ma nel cuore nessuna croce manca, è il mio cuore il paese più straziato”.

Autori: Valeria – Mimmo


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