Borgo Taccone

Borgo Taccone
Antonio

La fiaba del borgo abbandonato e della sua Borgata Dancing.


Era ancora un bell’uomo, decisamente! Nonostante i suoi settant’anni fossero suonati già da qualche anno, manteneva nel corpo, e soprattutto nello sguardo, un atteggiamento di perenne attesa, “Che pensi, nonno Emilio?” l’apostrofavo vedendo il suo poderoso corpo da contadino abbandonato sulla poltrona. Spesso eludeva la domanda. Ma lo scorso Natale fu diverso. Spinto dalla certezza della fine, avvolto in quel mistero che è l’entropia, si scosse e aprì lo scrigno dei ricordi. Il tremolio della voce tradiva non un’emozione, piuttosto il passo incerto di chi cammina sull’acciottolato sconnesso di un rimorso. Un’occasione persa? Che cosa era successo nella sua vita?

Nella foto si rivide in piedi su una sedia di legno in uno tinello spoglio, dietro una torta con quattro candeline. Era il cinque novembre del 1952, iniziò a raccontare nonno Emilio. Il Paese era uscito dal disastro di una guerra appena da cinque anni, con tanti giovani desiderosi di costruirsi un futuro, carichi di progetti alimentati da fiamme utopiche non prive di qualche sbavatura idealistica. Il “signor Marshall” era meno incline a cedere alle lusinghe del romanticismo e a Roma qualcuno decise che occorreva riportare gli uomini alla terra. Soprattutto la terra del sud. Ingaggiarono uno dei più valenti tecnici dell’epoca: “Plinio, l’ingegnere Plinio Marconi mi pare si chiamasse”. Gli affidarono la realizzazione di un borgo proprio al centro della terra dei loro padri. Gli stessi uomini, che sotto le bombe s’erano invaghiti di ciò che avevano letto e sentito di kibbutz e kolchohz, si rimboccarono le maniche delle grandi braccia desiderose di riscatto. C’era terra in Lucania. E ce n’era tanta, ma mancavano le case.

Plinio, “il muratore” come lo sfottevano, mise la sua scienza al servizio dell’idea e non si fece sfuggire l’occasione di sperimentare nuove tecniche costruttive e nuovi cementi. “Ho visto crescere quel sogno con occhi di bambino, ma col cuore gonfio di riconoscenza per quei giganti che ne stavano dando corpo”, sfruttando sapientemente ogni virgola della legge stralcio varata dal Parlamento solo due anni prima, perno della riforma agraria che voleva ripopolare le campagne italiane.

E fu così che andarono gli anni dell’infanzia, passati tra la scuola elementare del Borgo e il catechismo di Don Nicola. Si viveva per strada e quando i grandi non ci guardavano scappavamo ad esplorare le campagne del circondario. Gli uomini si alzavano presto per andare a lavorare la terra e le donne provvedevano alle faccende domestiche e ai figli. L’acqua era un bene comune e arrivava con l’autobotte, dovevano essere tutti bravi nel razionarla finché non arrivava il nuovo carico. La corrente elettrica era un lusso garantito da un gruppo elettrogeno con fasce orarie decise in comune accordo dagli abitanti. C’era un unico spaccio dell’Ente Riforma che vendeva tabacchi e beni di primo genere. La domenica ci si ritrovava nella chiesa di San Giuseppe e poi ci si intratteneva per le strade. Fu costruito perfino un dancing. Lo chiamarono Borgata Dancing e il fabbro diede fondo a tutta la sua maestria per allestire una roboante targa smaltata di esuberanti colori da apporre all’ingresso. Una volta al mese si trasformava in un cinema dove nutrire i sogni di una vita diversa e si aspettavano i matrimoni e le nuove nascite del paese per allestirlo a sala ricevimenti.
E quando qualcuno non stava bene o si faceva male c’era una stanza di pronto soccorso che provvedeva a dare le prime cure.
Al calare delle tenebre si cenava alla luce delle candele e ci si raccontava la giornata davanti al caminetto il cui fuoco scaldava le ossa portandoti al sonno ristoratore.

Intanto crescevo, bisognava frequentare le scuole medie e il Borgo non ne poteva avere, “Ricordo ancora il mio primo viaggio in autobus” disse con enfasi e in quella il volto si rigò di un taglio molto simile ad un sorriso. “Ci alzammo di buonora e i miei genitori ebbero un gran da fare a contenere l’eccitazione, la corriera sembrava un enorme mostro rumoroso e puzzolente, ma una volta entrato nel suo ventre il mondo diventava altra cosa guardato dall’alto”. Nonno Emilio raccontò d’essere rimasto tutto il tempo appeso al finestrino, ipnotizzato dalle immagini di quel film che scorreva oltre il vetro.

Finalmente ci liberammo dalla schiavitù del generatore per la corrente elettrica nelle case. Lo spaccio fece largo ad un Bar Trattoria, dove trascorrere le serate bevendo qualcosa mentre si pianificava la Festa del 1° Maggio intitolata a “San Giuseppe Lavoratore”, ripercorrendo l’albo dei vincitori della Cuccagna e la corsa nei sacchi, fino ad arrivare alle litigate per il percorso che la processione doveva seguire, e se qualche bicchiere in più esagitava gli animi c’erano anche due carabinieri, con tanto di baffo e pennacchi, pronti ad intervenire portandoci nel carcere locale. “Ci educarono alla convivenza e alla tolleranza”, disse fissandomi dritto negli occhi. “Dovevamo essere amici se non addirittura fratelli perché quel poco che c’era andava distribuito a tutti”. Nel frattempo nacquero una grande falegnameria ed una azienda di confezionamento, e l’ufficio postale, forte della vicina Stazione Ferroviaria, garantiva le comunicazioni.

Intanto crescevo, le scuole superiori. Il treno divenne il miglior amico, serviva a spalancare le porte a nuove esperienze, conoscere ragazzi di altri paesi, imbattersi con una umanità da vivere non come fratelli, ma da sconosciuti. L’incontro con l’altro sesso. La frenesia degli incroci quasi clandestini. L’ansia del raccoglier il denaro per la tratta e per la galanteria di un gelato nella grande città. E’ così che si diventa grandi e arriva il momento di mettere alla prova una vita passata nel chiuso di una comunità.

“E quando diventammo grandi…” l’uomo che era stato il padre di mio padre abbandonò le braccia lungo i fianchi, “…arrivò il momento della consapevolezza. Quelli tra di noi che s’erano fatti le domande, trovarono le amare risposte. Doveva essere un esperimento sociale importante ed invece stava già morendo”. Il sogno di un’economia rurale moderna e condivisa tra pari stava crollando sotto il peso della fatica. Non solo quella fisica. Le sirene di una modernità siderurgica stavano abbattendo a colpi di maglio anche le più granitiche convinzioni utopiche. Il borgo iniziava a spopolarsi per migrare nelle città che offrivano il posto fisso nelle fabbriche, negli uffici della rinata burocrazia statale, nel dedalo tutto levantino del commercio. La campagna era il luogo della sofferenza, della lentezza, dove il benessere si confronta con valori differenti da quelli cittadini. Taccone stava morendo spinto nel baratro dagli stessi che ne avevano alimentato il sogno.

Scorsi sul volto del vecchio un lucore come d’un riverbero involontario. Se fossero lacrime non lo saprei dire. Vero è che, col residuo di una energia giovanile, saltò su dalla poltrona dov’era e si mosse verso un punto della stanza dove probabilmente raggiunse i suoi fantasmi. In quel punto stava accosto alla parete un mobiletto che avevo sempre visto e mai indagato. Nonno Emilio armeggiò per alcuni istanti come preda di un’estasi finale. Ricavò da un cassetto degnamente occultato qualcosa come un involto che veloce venne a consegnare alle mie attenzioni. “A Taccone ormai sono rimaste poche persone e tante case abbandonate” disse con fermezza, “ma il sogno non è morto. Porta questa a quella gente, chissà che la fiamma non si ravvivi ancora”.

Quando rimasi da sola aprii con cautela l’involto. C’era dentro un oggetto di metallo che la ruggine del tempo aveva offeso, ma non del tutto umiliato. Smalti che ancora facevano bella mostra su una grafia d’altri tempi stampigliata da mani esperte. Portai l’oggetto alla luce e quando vidi, e capii, giurai a me stessa che sarei andata a Taccone il più presto possibile. Avevo un lavoro da fare, adesso. Un passato da risorgere ed una targa da riattaccare: Borgata Dancing.


Di queste case Non è rimasto Che qualche Brandello di muro Di tanti Che mi corrispondevano Non è rimasto Neppure tanto Ma nel cuore Nessuna croce manca È il mio cuore Il paese più straziato

Giuseppe Ungaretti “San Martino del Carso”

Autori: Valeria – Antonio – Mimmo

L’articolo lo puoi anche leggere sul sito di Ascosi Lasciti con il titolo la Fiaba del Borgo

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4 risposte

  1. Filippo Bove ha detto:

    PS.Il periodo della mia infanzia in cui ho vissuto lì dovrebbe essere terrà il 1954e 1958

  2. Carolina Marconi ha detto:

    Vi scrive la nipote del “muratore” Plinio Marconi: sono davvero commossa per questo ricordo, e per la descrizione dei luoghi e di quei tempi ormai passati… Complimenti davvero, anche per le fotografie!
    Carolina Marconi

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